TRATTORIA VITTORIA da ALDO
Da un racconto di Roberto Cosma
La nostra storia è una storia come tante storie italiane, di impresa familiare che parte da dai nonni materni Aldo e Pierina. Mio nonno Aldo arriva nel ‘62 come dipendente. Nel tempo, grazie alle sue capacità e alla sua esperienza passa alla gestione e infine a proprietà. Noi siamo la terza generazione.
La trattoria è sempre stata un punto di riferimento sia per la residenzialità, che era sicuramente maggiore di quella di adesso, e sia soprattutto per chi arrivava dalla stazione dei treni (impiegati, corrieri postali, ferrovieri, turisti). Era la trattoria del personale viaggiante. La cucina è sempre stata molto casalinga, di trattoria, espressa. Abbiamo cercato, nel tempo, di interpretare le evoluzioni mantenendo però una personalità: c’è immediatezza nei nostri piatti, c’è la giusta cura nell’impiattamento, senza lasciare che il lato visivo prenda il sopravvento, e c’è la materia prima di qualità, perché è quella che da l’immediatezza, ed è questa una cosa che ci caratterizza. Questo è ciò che sappiamo fare e quindi continuiamo a farlo. Determinanti sono state sicuramente le origini pugliesi di nostro padre, che ha reso dominante l’olio d’oliva – in cucina e al tavolo – invece dell’olio di semi, o come la salsa di pomodoro fresco invece che il concentrato.
Negli anni, c’è stata sicuramente un’evoluzione nella scelta sempre più oculata delle materie prime, ma anche nella proposta dei vini, sempre tenendo presente l’area di riferimento, che è il nord est (perché questi sono i vini che riusciamo a interpretare e a consigliare meglio rispetto ai piatti che facciamo) con inserimenti anche stranieri (francesi, tedeschi, austriaci). Ma il fulcro rimane lo stesso: una cucina stagionale, principalmente di mare, dalle moeche alla granseola. Abbiamo anche scremato molto il menù, non facciamo piatti “turistici”, però la lasagna sì, la facciamo bene e dunque perché non proporla? Per noi è una cosa di famiglia, poco importa se è diventata mainstream. Facciamo anche gli gnocchi col sugo di castrato, che era una cosa che faceva mio nonno, non tradizionale, diciamo, ma continuiamo a farla. Stessa cosa per i vari brasati di carne che poi diventano sughi da servire con la pasta o le polente.
Poi, chiaro, l’offerta si adegua sempre alla domanda. Abbiamo una fascia di residenti che viene e che sono clienti storici o clienti nuovi che ricercano la qualità, la genuinità, il rapporto personale – il sentirsi a casa, il contatto umano. E questo fa tantissimo.
Per il resto, siamo in prima linea a livello di passaggio turistico, e non possiamo ignorare questa cosa, ma non è che se qui davanti passano 10 milioni di persone significa che faccio più coperti, paradossalmente ne faccio meno. Quello che possiamo fare è cercare di costruire una domanda e quindi un turismo consapevole. Nel nostro piccolo, noi possiamo continuare a proporre il nostro territorio e le nostre tradizioni e sperare che questo contribuisca a rendere più consapevole chi ci fa visita. Ma non dipende interamente da noi. Molte di queste dinamiche sono macroeconomiche e noi, di fatto, le subiamo, quando su Venezia si dovrebbe fare una politica industriale sull’industria del turismo che fosse basata sulla qualità – il che semplicemente significa un turista che spende meglio e più consapevolmente quando visita Venezia, non necessariamente di più o di meno. Ma sono processi lunghi.
Personalmente mi sono riconosciuto nei principi della Buona Accoglienza. Entrare a farne parte è stato un riconoscimento della professionalità da parte dei colleghi, oltre che del pubblico, e questo è stato bello. Per me la Buona Accoglienza rappresenta un gruppo di ristoranti che interpretano, ciascuno a loro modo, l’enogastronomia veneziana. Devono continuare ad essere ben precisi gli elementi fondanti per cui uno si ritrova e si riconosce all’interno di questa associazione: stagionalità, reperibilità degli ingredienti, e un’etica sostenibile. L’ambizione ora è di trasmettere un messaggio che è quello di far vedere che a Venezia si può coltivare, si può costruire una filiera (vedi il progetto Osti in orto), ma soprattutto si può fare comunità, nella speranza che sempre più realtà si aggreghino attorno a quest’idea e si associno.