AL COVO
Da un racconto di Cesare Benelli, titolare di Al Covo
Nasciamo nel 1987. Da subito ci siamo orientati sulla cucina del territorio, sulla cucina di ingrediente. E da lì è partita tutta la storia. Ho avuto fortuna, nel senso che in quel periodo, la cucina veneziana languiva su modelli stereotipati di cucina, un po’ scimmiottando la cucina francese, la nouvelle cuisine. Poi, come tutte le le mode, durano poco. Noi ci siamo focalizzati su altro, sui riconoscimenti di Veronelli, per esempio, che erano un’alternativa alla cucina stellata, che è una cucina di rappresentazione – una cucina dove entra in gioco, oltre alla qualità dell’ingrediente, anche l’ego dello chef. Mentre la nostra è una cucina con meno ego possibile. Quello che parla è l’ingrediente; l’ingrediente è quello che determina il piatto.
Un’altra differenza è che non credo che il cibo sia arte. Può essere artigianato,anche sofisticato, ma non arte, l’arte è un’altra cosa. Il cibo deve essere verità, l’arte può essere anche menzogna. L’artigiano invece è custode, e, nel caso della cucina, deve custodire il patrimonio tradizionale della materia e le tecniche di cucina storiche di quel territorio. Sei collegato al passato, ovviamente al presente, ma anche al futuro, perché se non hai memoria del passato non c’è più futuro. Il cuoco fa da ponte tra tra la tradizione e la contemporaneità.
Prima degli anni ‘60 Venezia era una città che offriva un’ospitalità incredibile. Era conosciuta, richiamava una fascia di turismo altissimo, la più alta d’Italia, e stava in tutti i grandi alberghi. E lì, tipo all’Excelsior, facevano cucina del territorio, con il pesce pescato dai ragazzini del Lido, le fragoline raccolte agli Alberoni.
Già negli anni ‘70 le cose hanno iniziato a cambiare, e anche questi grandi alberghi hanno iniziato a perdere questo senso del prodotto, anche se la laguna offriva ancora tanto, tantissimo. Era un paradiso terrestre, variegato, di una biodiversità spettacolare (Di lagune ce ne sono pochissime al mondo. Questo era – è – un luogo unico, e dobbiamo rendercene conto). Qui all’epoca il pesce che c’era faceva il 30% del fabbisogno della città. Poi è arrivata la pesca a strascico, il rampone, che, senza regolamentazione, ha fatto strage. La morte di tutto. Ora la Comunità Europea si è imposta e ha tentato di regolamentare, ma in maniera molto blanda, non sufficiente.
Io sono fondatore dell’associazione della Buona Accoglienza insieme con Albino Busato. Insieme abbiamo creato un marchio, un codice di comportamento. E ora le tematiche sono altre, ma ci sono. C’è da prendere una posizione ambientale, anche culturale. Una riflessione che magari si può fare insieme per coniugare quella che è una proposta culinaria – che comunque guarda alla storia, al passato – con l’ambiente che ci circonda oggi.
Per questo, ad esempio, noi i nostri menù li basiamo sul mercato e sulla stagione, sempre. Tutto è fatto giornalmente. Questa è la chiave. Tu devi fare quello che è fresco, più fresco al momento in cui è pescato, e nella maniera più sostenibile possibile. Questo devi fare e in base a quello che tu vedi al mercato, tu disegni il tuo menù. La gente non chiede altro. È semplice, sto discorso. I cuochi devono operare nel loro contesto, e fare una cucina per sottrazione. Ma soprattutto deve essere una cucina consapevole. Se non ci sono più sogliole, tu a Natale per due anni non le servi. Anche i bisatti, le seppie. Bisogna adattare quello che si serve perché di quel che c’era, ora c’è pochissimo. Pensare al mercato, pensare al territorio, e in primis conoscerlo. Occorre consapevolezza, che fa parte di vivere un territorio, rispettarlo. Ecco quello che manca. Una volta era scontato, ma esisteva una comunità del cibo, cioè i veneziani si relazionavano solo con la roba di stagione, mangiavano solo quello che era. Perché, molto semplicemente, costava manco. Ora siamo in tanti, c’è meno di tutto. Serve consapevolezza. Quella veneziana è una cucina che è molto semplice e quasi esclusivamente legata alla reperibilità e all’acqua.
Al Covo c’è da tanti anni, ormai siamo conosciuti, abbiamo tanta clientela di ritorno. Chi viene da noi sa che cosa aspettarsi, sa cosa offriamo. Per metà già ci conoscono – a volte mi è capitato di vedere le generazioni crescere e cambiare – e per metà sta a noi raccontare, fare quel lavoro di custodia che dicevamo. Bisogna condividere, dire, far capire – la stagionalità dei prodotti, l’ambiente della laguna – pesce, verdure, selvaggina, tutto. Quasi dobbiamo farlo a monte, ovvero prima che arrivino qua. E questo dovrebbe continuare a fare la Buona Accoglienza. Una comunione d’intenti. Un tempo le motivazioni erano più pratico-logistiche, più tecniche. Ora sono politiche, culturali. E questi temi devono emergere e unirci, nel nostro piccolo. L’idea deve diventare contenuto, azione. Io ci tengo soprattutto al racconto delle tecniche di pesca, di quel che si dovrebbe non si dovrebbe pensare. C’è tanto. Ma d’altronde bisogna partire da qualche parte, e queste mi sembrano le basi. Poi, temi ce ne sono fin che vuoi.
La soddisfazione più grande, per me, è sicuramente aver fondato questo gruppo, averci uniti, aver trovato questa comunione d’intenti. La strada è lunga, ma la sostanza c’è.