ALLE TESTIERE
Da un racconto di Luca Di Vita
Cominciamo dalla fine: dal fatto che quest’anno facciamo trent’anni di attività.
Bruno (Gavagnin, ndr) fa il cuoco da sempre. Seguiva la mamma, che faceva la cuoca a domicilio, quindi è cresciuto con la cucina dentro. Ha fatto l’alberghiero e ha iniziato a lavorare in vari ristoranti di Venezia – una gavetta pazzesca. Poi ha deciso di mettersi a lavorare in prorpio e ha trovato questo locale nel 1993.
Io ero già amico di Bruno da tanti anni, avevamo un sacco di amici in comune, avevamo questa passione per il mangiare e bere bene. All’epoca lavoravo in albergo (ci ho lavorato per più di 15 anni), ma la mia passione per il vino mi ha portato a diventare sommelier, e nel frattempo ho girato il mondo perché ero curioso di provare cose diverse. Comunque, succede che un bel giorno me lo trovo fuori in calle e mi chiede se volevo subentrare al socio, che se ne stava andando. Tentenno un po’, ma alla fine decido di farlo. Mi è piaciuta da subito l’impronta; mancava giusto la parte del vino e dell’accoglienza, che era più il mio campo. Iniziamo. Era il 1994.
Tra noi c’è sempre stata una sinergia ideale. Ci piacevano le cose buone, fresche. Erano gli anni in cui non esistevano tutti quei prodotti preparati, si andava al mercato, si compravano le cose, e si cucinavano. Qui lavoriamo ancora così – solo col fresco, col pescato del giorno. Il menù lo facciamo tutti i giorni in base a quello che c’è. Abbiamo la possibilità di fare un lavoro di precisione perché abbiamo un sistema di prenotazioni infallibile. Ottimizziamo lo spazio al massimo e sappiamo quanta roba ci serve. Abbiamo 11 tavoli, facciamo un turno a pranzo, due a cena, sono circa 60 coperti. Sappiamo esattamente quanto cibo ci serve. E di tutto lo spazio che abbiamo a disposizione per il cibo, il pesce riempie un frigorifero. Riempiamo e svuotiamo, riempiamo, svuotiamo. Niente freezer. E cerchiamo di lavorare con pescato dell’Adriatico, al massimo del Tirreno. Abbiamo fornitori di fiducia al mercato di Rialto, compriamo solo quello che ci piace, tutti i giorni.
Il lavoro è molto nudo e crudo. I piatti cambiano sempre ma ci sono anche quelli signature che subiscono solo piccole variazioni stagionali. I primi sono sempre tre per questioni di spazio; quando possiamo ci facciamo la pasta fatta in casa. Invece di antipasti, siccome per me sono la chiave della tradizione veneziana vera, ce ne sono sempre tanti. E i nostri clienti abituali, quelli più affezionati, mangiano solo una selezione di antipasti. Ci si diverte. I dolci li fa Anna, in casa, così come i gelati, pochi al giorno, quelli che ci servono, sempre freschi.
La carta dei vini io non l’ho mai avuta, perché la mia non è una carta dei vini. La mia è una rubrica di amici, la apri è c’è Lorenzo, c’è Ivan, c’è Damiani, c’è Enzo. Prima vengono loro, poi ci sono i loro vini. Sono amici che stimo, e loro stimano noi. C’è quel rapporto di scambio e fiducia. Poi, non sono un talebano dei vini naturali però preferisco lavorare con produttori piccoli. Mi piace dire, più che vino naturale, vino consapevole.
Il cuore del nostro lavoro rimane questa cosa di farsi ispirare dal mercato. Siamo rimasti una trattoria. Sono contrario alla gourmetizzazione della cucina italiana. Tutti i nostri piatti sono ancora piatti da trattoria. Siamo a Venezia, abbiamo la fortuna di comprare il pesce fresco, vivo: andare poi a ridurlo ad un piatto che può sembrare fatto ovunque per me è assurdo. I nostri piatti sono comunque addobbati, nel senso che in cucina devi lasciare un po’ di possibilità di esprimersi – personalmente io andrei per sottrazione. Loro fanno questo lavoro per tante ore al giorno, è normale che vogliano esprimersi un po’. Questo è il massimo che ci siamo concessi.
In quest’ottica negli anni abbiamo fatto tante cose: il nostro amaro di laguna (il Nostrano), il nostro vino (da una minuscola vigna a Combai, solo rigorosamente in magnum (50 all’anno)), un libro di ricette con delle illustrazioni bellissime che ci identificano molto (una di queste è diventata il nostro logo).
Abbiamo avuto la fortuna di avere una grande esposizione mediatica, sulla stampa anglosassone, sulla BBC, e questo ci ha dato tanto, e ci ha dato anche la possibilità di parlare delle criticità di questo settore. Io ho avuto la possibilità di lavorare nell’hotellerie in un momento storico dove c’era una grandissima professionalità, c’erano delle figure appassionate, un servizio attento. Ora capita spesso che non si dia più un servizio ma un prodotto. Io sono un po’ all’antica e mi piace dare un servizio di livello. Siamo in cinque in sala per undici tavoli. Mi piace avere la possibilità di parlare con un cliente anche un’ora e vedere il servizio che va avanti. E’ cambiata l’ottica, l’esigenza del cliente, il costo del personale naturalmente, non è facile. Ma ci proviamo.
Nella Buona Accoglienza siamo dentro da più di vent’anni, siamo tra i vecchi, diciamo. E vedere questo nuovo influsso di giovani è bello e potrebbe essere decisivo a livello di idee e azione. Noi abbiamo fatto tanta roba, adesso è faticosissimo, e siamo un po’ stanchi. Credo sia importante strutturarsi e cercare nuove energie per alleggerire tutti dal giogo. Questo è un gruppo che fa della sua forza l’unità del messaggio rispetto alla qualità, ma è anche forte della sua diversità.