le ricette della tradizione

In questa sezione trovate le ricette più tradizionali e rappresentative di Venezia, ovviamente quelle preparate nelle nostre cucine con passione e portate al vostro tavolo per offrirvi un’esperienza consapevole e autentica.

L’inizio dell’autunno segna l’arrivo di una prelibatezza di breve durata. Spettacolari per condire gli spaghetti.


Arriva l’autunno e,  tra i tanti doni golosi della natura (in questo caso del mare) ecco le masanete, le femmine del comune granchio verde di laguna (Carcinus Aestuari), da cui si distinguono per le minori dimensioni, oltre che per l’addome a forma di cuore. In realtà il loro rigonfiamento è dovuto al fatto che vengono pescate nel periodo tra settembre e novembre, quando sono piene di uova di colore rosso-arancio, per questo motivo prendono il nome di “masanete col coral”. Hanno un carapace rigido di colore grigio-verdastro che cambiano numerose volte durante la stagione.

Questo autentico dono del mare in passato veniva pescato e consumato soprattutto in tempi di difficoltà economiche, era un cibo dei poveri, facile da reperire e spettava alle donne il compito di recarsi in campagna per scambiare questo prodotto con la farina di granoturco. Sono diffuse in tutto il Mar Medi- terraneo, dove vivono nei fondali sabbiosi. Vengono pescate con delle reti molto particolari chiamate “trezze” a cui sono legate delle trappole di forma cilindrica. Dopo essere state accuratamente selezionate, arrivano al mercato ancora ben vive: venivano un tempo vedute in grandi ceste brulicanti, da cui l’espressione dialettale oggi desueta “come un sesto de masanete” per indicare qualcosa o qualcuno irrequieto e in perenne movimento.

Le masanete hanno un sorprendente valore nutritivo. Hanno un basso contenuto calorico, infatti, in 100 grammi di prodotto ci sono circa 84 calorie, inoltre sono un alimento ricco di proteine, con pochissimi grassi e nessun carboidrato. Sono ricche di calcio, magnesio, sodio, selenio e fosforo, a cui si aggiungono le Vitamine A e B.

Il modo più semplice e consueto di consumarle prevede di condirle tiepide con prezzemolo e aglio tritati, sale, pepe e olio extravergine, avendo cura, previa lessatura e pulitura, di staccare le zampe e, con una forbicina, tagliare il bordo esterno del- la corazza in modo circolare, dividendo il carapace dal resto del corpo commestibile.

Naturalmente questo delizioso crostaceo di presta ad essere preparato in numerosi altri modi, dando sempre vita a piatti squisiti e particolari. A Venezia, il Ristorante Estro a San Pantalon, a pochi minuti da Piazzale Roma, propone la ricetta di un ottimo primo piatto di semplice preparazione.


Ingredienti per 4 persone: 400 grammi di masanete, 320 grammi di spaghetti di pasta secca, Cipolla, Aglio, Olio, Prezzemolo, Salsa di Pomodoro, Sale, Pepe.

Preparazione Lavare, lessare e pulire le masanete levando il carapace, le zampe, la parte inferiore dell’addome e le branchie, preparare un soffritto con aglio e cipolla tritata fine, cuocervi la salsa di pomodoro e aggiungere dopo qualche minuto le masanete, aggiustare di sale e pepe.

Lessare la pasta, scolarla al dente, saltarla nel sugo di masanete qualche istante allungando in caso la salsa con un goccio di acqua di cottura delle stesse masanete, servire caldo e spolverare col prezzemolo.


Articolo tratto da Il Gazzettino del 23 ottobre 2019

Preda ambita e rara è presente prevalentemente nell’Oceano Atlantico, ma è pescato anche in laguna dove gli esemplari sono più piccoli.

 

Prendere un granchio è già un problema, ma prendere un granciporro può essere davvero un grosso errore (come spiega il dizionario Treccani). Eppure “papà, è poro?”, “no, caro”, “uffa! Papà”, quante volte l’abbiamo sentita in spiaggia d’estate quando i bambini vanno a cacciare granchi con il retino o con il laccetto…

 

Infatti, il gransio poro (così in dialetto) è preda assai ambita e piuttosto rara. E non solo dai bambini. Ma perché questi poveri crostacei sono diventati sinonimo di errore? Probabilmente per un antico uso di mare, per cui pescando ti sembra di aver abboccato chissà che pesce ed invece è un granchio inferiore che spezza la lenza. Dunque, hai preso un granchio, o ancor più grosso, un granciporro. Il termine italiano deriva, appunto, dal dialetto veneto “gransio” (dal latino cancer) “poro” (dal greco pàguros).

 

Nome scientifico: Cancer pagurus. Un nome un po’ fuorviante perché il nostro granciporro è un granchio a tutti gli effetti, il paguro no. Vive tranquillamente da pochi metri fino a cento metri di profondità prediligendo fondi rocciosi. È presente prevalentemente nell’Oceano Atlantico, soprattutto sulle coste britanniche e del nord della Francia, mentre è meno diffuso nel Mediterraneo. Nei nostri mari viene soprattutto pescato nella laguna veneta ed è di norma più piccolo rispetto a quelli che vivono nell’oceano. Non ci sono periodi particolari che ne favoriscono la cattura, anche se in autunno e inverno la pesca è normalmente più abbondante.

 

La carne del gransio poro è veramente prelibata ed assai apprezzata dai buongustai, soprattutto nelle nostre zone. Ed è utilizzato in primi, secondi, insalate, sia per piatti freddi che caldi e può essere cucinato in svariati modi. Unico problema, se qualcuno non ve lo prepara, è un tantino complicato da pulire e mangiare. Nulla che con un po’ di pazienza e un bel tovagliolo non si possa superare. Il gransio poro sarà protagonista della ricetta che verrà proposta dal ristorante Wildner sulla Riva degli Schiavoni.

Intanto però ci dobbiamo occupare di un altro granchio di cui si fa tanto parlare in questi tempi, avendo letteralmente invaso la laguna e, più in generale, le coste adriatiche, causando non pochi problemi. Ovviamente, stiamo parlando del granchio blu (Callinectes sapidus). Provenendo dalle coste americane dell’Atlantico, probabilmente con l’acqua di zavorra delle navi, da alcuni anni sta proliferando in modo abnorme in Laguna e lungo l’Adriatico, anche se la prima segnalazione di questa specie risale al 1946 in Grecia. Privo di antagonisti naturali – più grosso, robusto e vorace degli altri granchi – e favorito probabilmente dalle condizioni climatiche, sta mettendo a repentaglio le altre specie simili e facendo strage di vongole di cui è voracissimo.

Soprattutto sul Delta del Po gli allevamenti di questi molluschi sono letteralmente in ginocchio.

 

Che fare? L’unica soluzione, al momento, sta nel fatto che il granchio blu è ottimo in cucina e, tra l’altro, assai più semplice da curare dei suoi consimili gransio poro o granceola, essendo all’interno molto meno ricco di cartilagini. Insomma, la soluzione al problema potrebbe essere quella del contenimento della specie attraverso la pesca a fini commerciali. Già si trova in alcuni banchi di pesce, anche sotto forma di moeca (il famoso soft crab degli americani).

 

LA RICETTA

Spaghettoni con granchio poro delle nostre dighe detto “magna e supa” proposto da Luca Fullin del Ristorante Wildner sulla riva degli Schiavoni

Ingredienti

 

Per 4 persone: 1,5 kg di granchi nostrani, 1 spicchio d’aglio, Olio Evo, 20 pomodorini freschi, 1 bicchiere di Malvasia, mezzo peperoncino, prezzemolo fresco e basilico, mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro, 300 grammi di spaghettoni di Gragnano.

 

Procedimento

Tagliare i granchi dalla parte del carapace ed eliminarlo. Scartare i polmoni, cercando di raccogliere in un contenitore l’acqua di mare e l’eventuale corallo. Tagliare in quarti le chele. Una volta puliti i granchi, scaldare l’olio in padella con l’aglio in camicia, ed una punta di peperoncino. Aggiungere i granchi tagliati e le chele. Quando hanno preso un bel colore, sfumare con la Malvasia. Aggiungere i pomodorini sbollentati e privati della pelle, con mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro. Aggiungere acqua e continuare la cottura per altri 10/15 minuti (dipende dalla taglia dei granchi). Spegnere la fiamma e lasciar riposare. Togliere la pance e le chele, lasciando solo il sugo rimanente, nel quale si finirà poi la cottura della pasta. Se gli spaghettoni hanno 12 minuti di cottura, andranno scolati dopo 6, per finirli nel sugo dei granchi, aggiungendo acqua di cottura. Quando la pasta è pronta, saltarla rapidamente, aggiungendo il corallo raccolto in precedenza.

 

Finitura

È un piatto da condivisione! Quindi servire la pasta in una pirofila aggiungendo qualche foglia di basilico. Fornire ai commensali un ampio tovagliolo e degli attrezzi adatti a pulire le chele dei granchi.

A cura dell’Associazione dei Ristoranti della Buona Accoglienza  

Articolo tratto da “Il Gazzettino” del 16 luglio 2023

 

Caustello, verzelata, volpina, bosega, lotregan.

 

Questa la “Hit parade” del cefalo. In ordine crescente, le specie più pregiate. Le prime due, in particolare, sono da sempre poco gradite, ed oggi praticamente scomparse dal mercato, per via del poco gradevole (e intraducibile) “sentor da freschin”. Altro discorso per le pregiate volpina, bosega di valle (insostituibile per il risotto della Vigilia di Natale) e soprattutto per il lotregano (Mugi auratus), che potrebbe essere considerato il principe dei cefali. In passato, nei mesi estivi, il profumo dei lotregani che arrostivano sulle braci invadeva frequentemente le calli veneziane.

 

Tradizionalmente, venivano grigliati e tagliati a tranci, poi conditi con olio d’oliva, pepe, sale, aglio e prezzemolo. Lasciati raffreddare, venivano consumati il giorno dopo, accompagnati da una bella fetta di polenta gialla appena arrostita. In passato, la pesca del cefalo era praticata su larga scala, soprattutto nelle valli, dove venivano seminati in abbondanza.

 

Infatti, pur molto meno costoso al mercato del branzino e dell’orata, il cefalo veniva pescato e smerciato in grandi quantità. Intere famiglie veneziane, soprattutto di Castello e di Burano, vivevano, per buona parte dell’anno, della pesca dei cefali, spesso praticata secondo metodi antichissimi, come nel caso del saltorelo, un tipo di rete da posta che risalirebbe addirittura all’epoca romana. Durante l’inverno, spesso i cefali trovavano ospitalità nelle darsene dell’Arsenale, dove i pescatori chiedevano speciale autorizzazione di entrare con le loro barche per qualche buona pescata.

 

Tornando ai lotregani, per capire quanto, da sempre fossero considerati pregiati, basti ricordare che, nei secoli andati, i contratti di affitto delle valli da pesca prevedevano, come regalia natalizia ai proprietari, un certo numero definito di questa varietà di cefali. Per carità, qualche problema di “immagine” i cefali l’hanno sempre avuto: “sei brutto come un cefalo”, “puzzi come un cefalo”. Ma si tratta, come spesso succede, di un pregiudizio (anche se, come abbiamo detto, parzialmente giustificato per alcune varietà).

I lotregani – ma anche le volpine e le boseghe – sono buonissimi. A patto di essere scelti con cura sul banco del mercato. Prima di tutto, è importante non confonderli con i loro cugini: i lotregani hanno un corpo allungato, snello ricoperto di grosse squame. Muso corto e bocca piccola. Labbro superiore munito di una fila di piccoli denti assenti sul labbro inferiore. Provvisto di due pinne dorsali, una pinna anale, pinna caudale forcuta.

 

Colorazione grigio-bluastra sul dorso, argentea sui fianchi attraversati da linee orizzontali più scure. Si caratterizza, in particolare, per una macchia dorata sull’opercolo e una più piccola dietro l’occhio. La taglia va dai 20 ai 45 cm. Come spiega Umberto Slongo, chef patron dell’Osteria Trefanti di Rio Marin a Santa Croce, devono essere “da bon”, ossia senza sabbia nelle interiora, prova che sono stati pescati in acque aperte, non fangose. Allora la carne dei nostri lotregani sarà prelibata, soprattutto il ventriglio, considerato, un tempo, una prelibatezza, sarà squisito condito con olio limone e pepe. Ma come capire se i lotregani – e i loro cugini in generale – sono “da bon”? Semplice: bisogna accertarsi che, facendo pressione con due dita, dall’addome non esca fanghiglia. In caso contrario si tratterà di pesci “da rio”, da scartare accuratamente.

 

LA RICETTA

 

Se la tradizione vuole i lotregani cotti alla griglia sulla brace o sulla carbonella, Ai Tre Fanti Umberto li propone secondo una ricetta semplice, ma particolare, con menta, basilico e fragole.

Ingredienti per 4 persone: 4 lotregani di taglia media, 6 foglie di menta, 6 foglie di basilico, 4 rotelle di porro, 8 bacche di pepe rosa, 4 gr. di cannella in stecca sbriciolata, sedano carota e cipolla per il fumetto, 4 cucchiai di olio evo.

 

Procedimento: sfilettate i lotregani (il vostro pescivendolo di fiducia sarà lieto di farlo per voi), scaldate l’olio in un’ampia padella e adagiatevi i filetti di pesce, insieme alle foglie di menta e di basilico tritate, al porro, al pepe rosa e alle bacche di cannella, e saltateli rapidamente. Aggiungete un po’ del fumetto che avrete preparato nel frattempo e lasciate cuocere 7/8 minuti, finché sarà consumato. All’ultimo, aggiungete le fragole tagliate, rifinendo la cottura. Servite i filetti di lotregano con il condimento ottenuto, guarniti con le fragole.

 

A cura dell’Associazione Ristoranti della Buona Accoglienza – Venezia 

Articolo de “Il Gazzettino” del 20 giugno 2021

Il carciofo (Cynaracardunculus scolymus) è una pianta antica, probabilmente derivata dalla selezione orticola del cardo selvatico e che quindi non esiste allo stato spontaneo. Noto già agli Egiziani, il carciofo era consumato non solo come ortaggio, ma, in particolare nel Medioevo, per le sue proprietà medicinali, benefiche per il fegato. La pianta ha un ciclo biennale: il primo anno si sviluppa soltanto una rosetta di foglie molto allungate; nel secondo, dal centro della rosetta si sviluppa il fusto da cui si dipartono i capolini, la parte edibile, che, a maturazione, danno dei grandi fiori di un bellissimo colore azzurro violaceo. 

 

A Venezia i carciofi vengono coltivati nei terreni argillosi delle isole e della gronda della Laguna: alle Vignole, a Malamocco, a Mazzorbo, al Cavallino, ma, soprattutto a S. Erasmo, la grande isola – ha una superficie pari quasi alla metà del Centro Storico – che sin dal Cinquecento è l’orto della Città. Sui terreni argillosi, ben drenati e con una salinità elevata, crescono verdure saporite, in particolare i carciofi, appunto, tanto che la varietà ha preso il nome di “Carciofo violetto di S. Erasmo”. 

Un tempo le piante venivano concimate con le “scoasse” (oggi diremmo “compost”) oppure con conchiglie e gusci dei granchi, per arricchire il terreno. Piccole montagnole di terra – le “motte” – venivano predisposte dal lato del mare a protezione delle piantine dal gelido vento di bora. 

 

È una pianta generosa, il carciofo. Infatti, i capolini prodotti in una stessa annata hanno epoche di raccolta, dimensioni e caratteristiche diverse e sono indicati con altrettanti termini specifici. Si comincia a metà aprile con il capolino principale, “castraura”, seguono “botoi”, “sotobotoi” e “massete”, 15/20 in tutto. I carciofi residui, più grossi e meno teneri, a fine stagione diventeranno “fondi”. 

Gli articiochi, così si chiamano i carciofi in dialetto, pare siano stati introdotti nella cucina veneziana dalla comunità ebraica. L’origine della parola segue strade tortuose, muovendo dall’arabo al-kharšuf, forse attraverso lo spagnolo alca chof, da cui “carciofo”, mentre il percorso attraverso i paesi nordici – in francese artichaut, in inglese artichoke, in tedesco artischocke – ci porta, appunto, al veneto articioco. Dotte etimologie a parte, le “castraure”, in particolare, sono una vera delizia, molto ricercata e disponibile solo per pochi giorni – 10, 15, non di più – normalmente tra fine Aprile e inizio Maggio. 

Danno il loro meglio consumate crude, a fettine sottili, sale, pepe, un filo di buon olio EVO e con l’aggiunta di qualche scaglia di formaggio grana. Sono, però, squisite anche “indorate” con farina e uovo e fritte o “in tecia”, ben rosolate e cotte lentamente in un soffritto di aglio e olio, sempre facendo attenzione a non scartare mai i gambi (i “maneghi”), buonissimi. 

I carciofi, tuttavia, sono un patrimonio gastronomico comune a molte regioni d’Italia come la Toscana (Livorno), la Puglia e, soprattutto la Sardegna dove il “carciofo spinoso sardo” (il cartzof fa in dialetto) ha trovato il suo habitat ideale, sin dall’epoca dei Fenici, nelle aree costiere, nei fondo valle e nelle pianure centrali dell’isola, ai lati dei più importanti corsi d’acqua. 

Ben diverso, nell’isola, il periodo della raccolta che parte con i precocissimi a fine Ottobre, prosegue a Novembre-Dicembre con i precoci e si conclude a Marzo-Aprile con i tardivi. 

Ecco perché a suggerirci un modo particolare, peraltro semplicissimo e gustosissimo, di consumare le “castraure” sono Luigi e Patricia della Trattoria ”Anzolo Raffaele”, nell’omonimo Campo a Dorsoduro, dove propone numerosi piatti tipici della cucina sarda. Una semplice ricetta che coniuga bene la tradizione e i prodotti tipici veneziani con quelli della Sardegna, dove Luigi ha un’azienda agricola da cui provengono direttamente molti degli ingredienti adoperati nella sua cucina. La ricetta può essere realizzata sia con le “castraure” del Violetto di S. Erasmo che coi precocissimi dello Spinoso sardo. 

LA RICETTA

Millefoglie di carciofo con bottarga targa di muggine di Cabras”

Ingredienti Per 4 persone: 8 carciofi precocissimi spinosi sardi o castraure di Sant’Erasmo, 40 gr. di bottarga di muggine di Cabras in baffe, 1 limone, olio di olive extra vergine di oliva, sale, pepe, pane carasau. 

 

Procedimento: mondare le “castraure” di S. Erasmo o i precocissimi sardi e tagliarli sottilmente. Immergerli in acqua fredda con il succo del limone. Scolare e condire con olio, sale e pepe. Disporre a strati il pane carasau (carta da musica), le castraure/carciofi e la bottarga di muggine affettata sottilmente a lamelle. 

 

da “Il Gazzettino” del 18 aprile 2021

A cura dei Ristoranti della Buona Accoglienza

 

Se qualcuno ha dei dubbi, è bene precisare che, come spiega Achille Campanile, “Non c’è alcun rapporto fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Quelli sono un legume appartenente alla famiglia delle asparagine, credo, ottimo lessato e condito con olio, aceto, sale e pepe. Alcuni preferiscono il limone all’aceto; anche eccellente è l’asparago cotto col burro e condito con formaggio parmigiano. Alcuni ci mettono un uovo frittellato sopra, e ci sta benissimo. L’immortalità dell’anima, invece, è una questione; questione, occorre aggiungere, che da secoli affatica le menti dei filosofi. Inoltre gli asparagi si mangiano, mentre l’immortalità dell’anima no”. 

L’asparago, peraltro, non è un legume, ma una pianta erbacea della famiglia delle asparagacee che cresce fino a 150 cm di altezza, con steli robusti e fogliame ramificato. In realtà, non si tratta di foglie, ma di rami modificati detti “cladodi”. Le foglie sono ridotte a squame minute, mentre i fiori sono delle campanule di colore bianco-verdastro. La pianta è dotata di rizomi che crescono sottoterra e da cui si dipartono i turioni, ovvero i giovani germogli commestibili, quelli che, semplificando, tutti chiamano “asparagi”. 

Già gli Egizi li coltivavano per uso alimentare e i Romani ne erano ghiottissimi, al punto che vi erano delle navi destinate specificamente al loro trasporto dette “asparagus”.

Oggi il maggior produttore di asparagi è, manco a dirlo, la Cina che da sola copre più dell’80% del mercato con una produzione massificata, seguita a grande distanza dal Perù con circa il 4%. Pur essendo da noi molto comuni ed apprezzati, l’Italia non tocca l’1%, ma con inarrivabili qualità e varietà. Da preferire sempre e comunque!

Grosso modo, gli asparagi si distinguono in verdi e bianchi, anche se, in realtà le varietà sono più numerose (per esempio gli asparagi violetti). La pianta è la medesima “asparagus officinalis”, differente il metodo di coltivazione. L’asparago bianco viene coltivato tenendolo ricoperto di terra, in maniera che, senza luce, non sintetizzi la clorofilla e si mantenga più dolce e tenero. In Veneto si dividono, con approssimazione dialettale, in “sparesi”, bianchi e “sparesee”, verdi. Si coltivano in terreni alluvionali, sabbiosi, ricchi d’acqua, ma ben drenati, nelle province di Padova, Treviso e Vicenza. Particolarmente pregiati, gli asparagi di Bassano, Badoere e Cimadolmo.

Due parole in più meritano le “montine”, varietà sottile dal sapore intenso ed amarognolo che cresce nella Laguna di Venezia tra Cavallino e Treporti. Recentemente la produzione è stata ripresa anche a Sant’Erasmo, Tra le migliori quelle di “Osti in orto” – l’azienda agricola nata nel 2021 per proporre i prodotti più tipici, e talora dimenticati, delle terre lagunari.

Ritroviamo gli asparagi anche nella storia dell’arte: nel 1880 Eduard Manet dipinse un quadro intitolato Il mazzo di asparagi (oggi al Wallraf-Richartz Museum di Colonia) per il quale chiese al celebre collezionista Charles Ephrussi (il protagonista di Un’eredità di avorio ed ambra di Edmund de Waal) 800 franchi. Ephrussi volle dargliene 1000, così Manet dipinse, per pareggiare i conti, un secondo quadro, L’asparago, conservato al Museé d’Orsay di Parigi.

La ricetta a base di asparagi viene suggerita da Fiorenzo e Linda Scroccaro della Trattoria Da Ignazio a San Polo, che vi aspettano per assaggiarla nel loro giardino.

 

LA RICETTA

Linguine terra e mare con asparagi verdi nostrani e gamberi rossi

 

Linguine all’uovo fatte in casa

Asparagi verdi di Badoere

Gamberi rossi

 

Pulire gli asparagi sciacquandoli in acqua corrente fredda ed eliminando la parte finale dei gambi, fibrosa e poco saporita.

Sbollentare gli asparagi in acqua bollente leggermente salata per 4 minuti circa. 

Tenere da parte un po’ d’acqua di cottura degli asparagi.

In una padella aggiungere un filo d’olio e saltare rapidamente i gamberi rossi, tagliati a metà in senso longitudinale e ripuliti dal proprio budellino, con il sughetto estratto dalle teste degli stessi. Aggiungere gli asparagi tagliati a pezzettini, tenendone da parte alcune punte per guarnire il piatto.

Portare a bollore l’acqua per la cottura della pasta, essendo pasta all’uovo fresca basteranno pochi minuti. Scolata la pasta, si spadella assieme al sugo di asparagi e gamberi, aggiungendo un mestolino d’acqua di cottura degli asparagi.

Impiattare e aggiungere le punte di asparagi e qualche gambero crudo tenuto da parte, battuto a tartare e condito a piacere.

 

A cura dell’Associazione Ristoranti della Buona Accoglienza – Venezia

 

La loro pesca in laguna si svolge principalmente tra marzo e maggio, ma quest’anno (2020 ndr) sono arrivate in anticipo già da qualche settimana. Le più piccole sono le più pregiate.

Quest’anno sono in anticipo. Chi? Le seppie. Già, perché ormai da qualche settimana sui banchi del mercato se ne trovano in abbondanza. Normalmente, la pesca delle seppie in laguna si svolge principalmente tra marzo e maggio, periodo in cui entrano dal Mare Adriatico per riprodursi e deporre le uova e tra Luglio e Settembre, quando le giovani seppioline riprendono la strada del mare aperto.

A parte la pesca amatoriale che si pratica dalla barca con la lenza (togna) e il guadino (volega) o con le lampare (soprattutto per le seppioline nel periodo estivo), la pesca su larga scala prevede l’utilizzo di nasse o reti con ramponi a strascico. Notevole è la differenza tra le seppie pescate senza l’utilizzo di reti a strascico che, lavorando sul fondo, provocano la morte del pesce che dovrà poi essere pesantemente lavato per ripulirlo dalla sabbia. Così le seppie vengono a perdere le loro interiora (“il pien”) che le rende succulente al palato una volta cucinate. La pesca con le nasse in sospensione mantiene invece in vita il pescato, non lo riempie di sabbia, preservandone in pieno la qualità, senza richiedere trattamenti che ne disperdono i sapori.

Inutile soffermarsi a descrivere le seppie, tutti le conoscono benissimo. Per amor di precisione diremo solo che sono dei molluschi marini cefalopodi appartenenti alla famiglia delle Seplidae e che hanno dimensioni variabili dai pochi centimetri al mezzo metro per un peso che può anche superare i 10 kilogrammi. Ovviamente, le più pregiate sono quelle di piccola dimensione.

La ricetta delle “seppie in nero” è tra quelle più semplici e tradizionali, secondo la filosofia dell’Associazione dei Ristoranti della Buona Accoglienza, gruppo di locali veneziani che promuove e sostiene le piccole realtà e l’economia del territorio lagunare, privilegiando la cucina legata al prodotto, rispetto alla gastronomia orientata all’elaborazione e alla presentazione dei cibi.

Le seppie in nero richiedono di essere accompagnate con polenta gialla, un’eccezione nella cucina veneziana che richiede normalmente con il pesce la più delicata polenta bianca. La traduzione viene fatta risalire alla rivalità politica tra i due caffè storici di Piazza San Marco, il Florian e il Quadri. Infatti, il primo, irredentista, serviva ostentatamente “risi e bisi” e fragole – bianco, rosso e verde – il secondo, frequentato da una clientela filoaustriaca, proponeva seppie nere con polenta gialla, i colori della bandiera dell’impero austro-ungarico.

LA RICETTA

La ricetta viene proposta dalla “Trattoria da Ignazio”, storico indirizzo che da molti anni propone la cucina veneziana nel locale di Calle dei Saoneri a pochi passi da Campo San Polo.

Ingredienti per 4 persone: 

Seppie: 1kg;
Vino rosso: 1⁄2 bicchiere;
Passata di pomodoro: 2 cucchiai;
Prezzemolo q.b.,
Sale e pepe q.b.,
Olio aromatizzato all’aglio

Procedimento: Lavare e pulire le seppie eliminando la pelle, le interiora e il rostro (il becco) e avendo cura di preservare le piccole sacche contenenti il liquido nero. Tagliarle a listarelle regolari e metterle in una pentola con l’olio aromatizzato, sul fuoco a fiamma medio dolce. Aggiungere quindi il vino rosso, le sacche di nero, la passata di pomodoro, sale e pepe. Lasciar bollire per circa un’ora e quindici minuti, mescolando di tanto in tanto e aggiungendo, se necessario, un mestolino d’acqua calda durante la cottura per mantenerle morbide. Una volta terminata la cottura, quando il sugo risulterà denso e cremoso, aggiungere un pizzico di prezzemolo tritato. Servire le nostre seppie accompagnate da polentina gialla abbrustolita. Vino in abbinamento: Lugana o Soave

A cura dell’Associazione Ristoranti della Buona Accoglienza – Venezia www.veneziaristoranti.it 

articolo tratto da Il Gazzettino di Venezia. 27 febbraio 2020

In passato il consumo di carne in città è sempre stato assai comune, nelle sue forme più “nobili” come arrosti, bolliti, stufati, ma anche nelle parti meno pregiate. Le preparazioni più ghiotte utilizzavano i pezzetti di carne e grasso attaccati alle ossa.

 

Oggi facciamo fatica ad im-maginarlo, ma nel passa-to – almeno fino a secolo XIX inoltrato – a Venezia la macellazione degli animali avveniva in città, in numerosi macelli privati, così come numerose erano le stalle dove le bestie venivano tenute. Erano concentrati, in particolare, nelle zone di Rialto e San Giobbe, dove rimangono a testimonianza numerosi campielli e calli “del becher” o “delle beccarie” che non erano, come si potrebbe pensare, negozi di carne, ma, appunto, veri e propri “macelli”.

In Campo delle Beccarie si trovava lo “Stalon”, esattamente dove oggi, sotto la loggia ottocentesca, si trova, guarda un po’, il mercato del pesce.

Originariamente vi era la casa della famiglia Querini che “per due terzi fu confiscata ed abbattuta nel XIV sec, dopo la vittoria sulla congiura di Bajamonte Tie-polo (1310), a cui avevano appunto partecipato alcuni dei Querini. Acquistata dalla Signoria la parte non demolita, nel 1339, ivi vi fu trasferito il pubblico Macello (beccaria)…” come racconta il Lorenzetti in Venezia e il suo Estuario.

I BECHERI

Era un’attività rilevante e nel Medioevo i “becheri” erano riuniti in un’importante corporazione, il cui patrono era San Michele Arcangelo. Sede della Scuola dei Becheri era la chiesa di San Mattio a Rialto, oggi scomparsa, di cui i “Becheri” avevano il diritto di eleggere il parroco. I Becheri, inoltre, avevano il privilegio di combatt re come toreri nelle “corride” che si tenevano in occasione delle festività popolari in Piaz- za San Marco e in Campo San Polo.

A metà dell’Ottocento – nel 1843 – l’amministrazione comunale decise, per ragioni igie niche e sanitare, di concentrare l’attività di macellazione “sia di Bovi, che di Vitelli, Lanu ti e Suini” in un’unica area. Fu scelta la periferica zona di San Giobbe. Il macello comunale ri-mase ufficialmente attivo fino 1972 in un edificio oggi trasformato, dopo aver ospitato per un periodo le società remiere cittadine, in una sede dell’Università Ca’ Foscari che lo ha magnificamente restaurato.

Tutto questo, per dire che il consumo di carne a Venezia è sempre stato assai comune, nelle sue forme più “nobili” come arrosti, bolliti, stufati, ma anche nelle parti meno pregi te come le frattaglie – fegato, cuore, esofago (rumegal), milza (spienza) – o i nerveti. In periodi meno floridi il principio “non si butta via niente” era imperativo.

Ecco che il garzone del macellaio, dopo la macellazione e il taglio delle carni, si dedicava pazientemente a staccare tutti i pezzetti di carne e grasso che restavano attaccati alle ossa, alla colonna vertebrale in particolare, mettendo da parte le preziose “sècole”, con cui preparare un delizioso risotto. Oggi non è così così facile trovarle, i macellai non sono più tanto “pazienti” da dedicarsi ad un lavoro così certosino, senza contare che, nei primi anni del 2000, per via della cosiddetta “sindrome di mucca pazza”, il commercio delle “sècole” fu bandito per qualche anno. Se, però, disponete di un “becher” di fiducia, sarete sicuramente in grado di procurarvele per preparare il tradizionale piatto.

LA RICETTA

La ricetta ci viene proposta da Roberto Miracapillo che gestisce la Trattoria da Vittoria da Aldo, locale storico in Campo San Geremia che il nonno rilevò negli anni ‘60 e che da allora è condotto dalla famiglia. 

Ingredienti per 4 persona: 300 gr di riso vialone, 300 gr. di sécole, 70 gr di burro, mezza cipolla (a piacere anche sedano e carota), 1litro di broso di manzo (midollo di manzo), 50 gr. di parmigiano, olio EVO, sale e pepe.

Procedimento: rosolare nell’olio le sècole con la cipolla (ed eventualmente il sedano e la carota). Lasciarle cuocere, salate e pepate, per un paio d’ore in un poco di brodo. Aggiungere il riso e portarlo a cottura, versando il brodo un poco alla volta. Al termine mantecare con il parmigiano grattugiato. Va benissimo anche un meno nobile formaggio montasio invecchiato. In fase di mantecatura spesso si aggiungeva, se disponibile, un po’ di midollo di manzo lessato. Il risotto va mantenuto piuttosto all’onda, ossia leggermente liquido.

(a cura dell’Associazione Ristoranti della Buona Accoglienza di Venezia)

Articolo tratto da il Gazzettino del 23 gennaio 2022

 

Quando si parla di cucina veneziana si pensa subito a piatti di pesce. In realtà

l’ecosistema lagunare costituisce un ambiente ideale non solo per la fauna ittica, ma anche per la selvaggina. Così erano gli stessi pescatori ad imbracciare il fucile.


È quasi un riflesso condizionato: quando si parla di cucina veneziana, si pensa subito a piatti di pesce. In realtà, la laguna offre molto altro. Il suo ecosistema, in cui acqua e terra si compenetrano meravigliosamente, costituisce un ambiente ideale non solo per la fauna ittica ma anche per il “selvadego”, la selvaggina. Sono, infatti,numerose le specie di uccelli che scelgono la laguna come luogo favorevole dove riprodursi provenendo dall’Europa del Nord o per fare tappa nel loro percorso migratorio verso l’Africa.


Così, in passato, terminata la stagione della pesca, erano gli stessi pescatori ad imbracciare il fucile e a recarsi in barena o in valle per andare a caccia, vuoi, secondo antica tradizione, a bordo di uno sciopon (una sorta di sandolo molto leggero per muoversi

tra ghebi e barene, con la prua bassa per appoggiarvi lo sciopo, un lungo fucile) o in botte.

Ma cosa si caccia in laguna? Le specie di selvaggina di penna sono almeno una decina, più o meno pregiate. Le migliori sono quelle degli uccelli di superficie (che immergono solo la testa per mangiare) rispetto ai “tuffatori” che vanno sotto il pelo dell’acqua per pescare.

I primi si nutrono, infatti, per lo più, di vegetali (hanno quindi carni più delicate), mentre i secondi si alimentano soprattutto di pesci e molluschi.

Tra le anatre il più diffuso è sicuramente il masorin (germano reale). Riconoscibilissimo per il bel verde brillante che caratterizza la testa dei maschi, è l’unica specie che nidifica stabilmente in laguna ed è presente durante tutto l’anno. Da qualche tempo lo si incontra abbastanza facilmente anche nei canali interni di Venezia. Tra i più apprezzati per la sua carne, il pignolo (canapiglia), detto anche “cappone di valle”. Riconoscibilissimo per la sua

testa di un bel rosso bruno, il ciosso (fischione) che ama le acque salmastre e fangose, ricche di vegetazione sommersa. E ancora, il foffano (mestolone) riconoscibile per via del suo sproporzionato becco a spatola, specie dalla carne non particolarmente pregiata, il magasso (moriglione), comune anche nel Delta del Po dove con la sua carne si prepara un’apprezzata minestra, la crecola (marzaiola) che sosta in laguna nel mese di marzo – da qui il suo nome – durante la sua migrazione verso il Sahara, il penacin o moretta riconoscibile per la sua livrea nera e bianca e il bel ciuffetto dietro la testa,folaga che non è propriamente un anatide -, specie molto apprezzata, anche e soprattutto per il magnifico risotto che si ottiene con le sue carni. 

La sarsegna (alzavola, nome scientifico anas crecca) è per molti la migliore dal punto di vista gastronomico; è la specie più numerosa nelle valli, nelle cui acque a bassa salinità, dove sverna tra dicembre e gennaio, si trova particolarmente a suo agio: è facilmente riconoscibile per la testa rossa con una macchia verde sull’occhio.


È proprio la sarsegna la protagonista della ricetta proposta da Cesare Benelli, patron del ristorante al Covo, che ha creato alla Bragora assieme alla moglie Diane, cui si è aggiunto da qualche tempo il figlio Lorenzo.


LA RICETTA

Sarsegne alle tre cotture

Ingredienti per 4 persone:

4 sarsegne frollate per due giorni in frigorifero, salvia, rosmarino e alloro, 3 gambe di sedano, 2 carote, 1 cipolla, 2 spicchi d’aglio  4 chiodi di garofano, 3 bacche di ginepro, pepe di Sarawak in grani, un tronchetto di cannella, 1/2 bottiglia di vino bianco, olio Evo, 40 ml di brandy, 25 gr di burro, sale qb, un pizzico scorza di limone ed arancia grattugiata, 4 etti di cicoria e bieta di campo.


Procedimento:

Spennare le sarsegne, svuotarle e bruciare le piume rimaste; sminuzzare i duroni, i fegatini e il cuore. Marinare nel vino bianco per qualche ora con sedano, carota, cipolla, abbondante salvia, rosmarino, alloro e uno spicchio d’aglio. Rosolare dolcemente per 15 minuti in un tegame con olio Evo assieme alle verdure della marinata, caramellizzando bene il tutto e fiammeggiando alla fine con un bicchierino di Brandy.


Mettere le sarsegne in una pentola più alta, aggiungere le frattaglie con una generosa quantità di salvia e rosmarino, pepe Sarawak in grani, i chiodi di garofano, un tronchetto di cannella, le bacche di ginepro, la scorza di arancia e limone e un altro spicchio d’aglio. Coprire con acqua e livellare sottilmente con olio Evo. Far sobbollire lentamente a tegame

coperto per circa un’ora, aggiungendo del liquido, se necessario. Sgocciolare bene, imburrare delicatamente e metterle in forno già caldo a 180° per 30 min.

Servire su una polentina morbida, irrorando con il fondo di cottura “tirato” e accompagnando con bieta e cicoria di campo sbollentate e scaltrite. Sminuzzate a dovere e con il loro sughetto possono essere la base per un delizioso risotto di “selvadego”.


A  cura dell’Associazione Ristoranti della Buona Accoglienza di Venezia, da Il Gazzettino di domenica 12 dicembre 2021

di Claudio De Min 

In una stagione ricchissima di straordinari e versatili prodotti e sapori irresistibili,
il Veneto ritrova a novembre due piatti straordinari e unici. Uno da sempre celebra la fine della grande pestilenza in Laguna, l’altro festeggia la conclusione della annata agricola.

Zucca e marroni, funghi (ne parliamo a pagina 5) e patate americane, radicchio di Treviso e carciofi la lista dei sapori autunnali (e relative ri- cette), in Veneto, è lunga e varie- gata. La zucca, ad esempio, è una meraviglia buona per tutti gli usi: dai Tortelli ripieni ai risotti, per cominciare, ma anche in cre- ma a condire la pasta corta, al posto dei fagioli, per dire, oppu- re sotto forma di vellutata. Per non parlare del suo utilizzo in pasticceria: se siete scettici pro- vate la torta alla zucca e cioccola- to della pasticceria Pettenò di Mestre. Il Radicchio trevigiano è una meraviglia che il mondo ci invidia (e che aspetta il freddo per fare il meglio di sé) e anche qui si può farne qualunque uso goloso: condire gli spaghetti, ac- compagnarlo alla pasta e fagioli, farne un’insalata, una torta salata, un paté, perfino un gelato e addirittura la birra. Ma fra gli innumerevoli peccati di gola che la cucina veneta propone ce ne so- no un paio che vanno al di là del gusto, fanno parte della festa, della celebrazione, spesso rimandano alla tradizione e alla religiosità, e ad un forte un senso di comunità. Uno è tipicamente veneziano, la Castradina, l’altro è popolare in gran parte della regione, l’Oca.

“…i passa el ponte, i crompa la candela, / el san- to, el zaletin, la coroncina, / e ver- so mezzodì l’usanza bela / vol che i vaga a magnar la castradi- na”. Con questi semplici versi il poeta Domenico Varagnolo racconta l’usanza veneziana di mangiare la Castradina in occasione della festa della Madonna della Salute, il 21 novembre (quest’anno cade di sabato).
Tradizione molto antica che risale a circa quattrocento anni fa  – al 1630-31 per la precisione – periodo della grande pestilenza, la stessa raccontata dal Manzoni nei “Promessi Sposi”, che portò alla costruzione votiva della Basilica del Longhena che domina ’imbocco del Canal Grande, per volere del doge Nicolò Contarini, a seguito di un voto del patriarca Giovanni Tiepolo (entrambi, pe- raltro vittime della pestilenza).

La Castradina è un piatto a base di cosciotto di montone salato, affumicato ed essiccato al sole, con cui si prepara una gustosa zuppa cucinata aggiungendo foglie di verza, cipolle e vino. La carne così preparata, proveniva dall’Albania e dalla Dalmazia, venduta alle navi veneziane di passaggio nei porti. Per secoli, la Castradina a Venezia è stata una pietanza “de obligo su le tole, sia dei povaréti che dei siori, nobili o mercanti”. Il piatto è entrato nella tradizione per una sorta omaggio ai Dalmati, che durante il periodo di isolamento per la drammatica epidemia erano gli unici a rifornire di cibo la città. La Castradina arrivava a Venezia fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale sui trabaccoli e sulle tartane albanesi battenti bandiera turca o austroungarica che ormeggiavano, appunto, lungo la Riva degli Schiavoni.

E poi – dicevamo – c’è l’Oca la cui storia è ben raccontata nel si- to web di Michele Littamè, gran- dissimo interprete non solo dell’allevamento (nella sua tenu- ta di Sant’Urbano, nel Padovano, nell’ultimo mese di vita le oche vengono allevate a latte e miele) ma anche della sua declinazione “in onto”. Anche qui è l’autunno il tempo giusto e il rimando alla religiosità riguarda San Marti- no. “Un tempo – scrive Littamè – nelle campagne venete con le oche si producevano salumi e prosciutti – soprattutto dove era- no presenti comunità ebraiche – e, in tempi più recenti, anche paté di fegato. Utilizzando tutte le parti del volatile si realizzava una particolare conserva: l’oca in onto, buona per conservare le carni molti mesi. Ai primi di novembre, per San Martino, si macellavano e si mangiavano le prime oche. Ma San Martino era – ed è ancora oggi – anche la festa di chiusura dell’annata agraria, il momento in cui venivano fatti i conti con il padrone e si festeg- giava con piatti a base di maiale oppure di oca, il “maiale dei po- veri”. Per la conservazione in on- to (detta anche oca in pignatto) le oche sono separate dalle loro parti grasse e tagliate a pezzetti. Le carni riposano sotto sale per alcuni giorni oppure sono cotte con erbe, aromi e un poco di vino rosso e, successivamente, si ri- pongono direttamente in un or- cio di terracotta o vetro, si completa l’ultimo strato con il grasso fuso e si chiude il vaso. Una lavorazione che consente una lunga conservazione delle carni che durano in questo modo tutto l’inverno e, volendo, anche un paio d’anni. È ottima con la salsa di cren, con le patate o la peperona- ta, e, in ogni caso, con la polenta.

Ha collaborato Andrea De Marchi, per i Ristoranti della Buona Accoglienza

La ricetta

La ricetta della “Castradina” ci viene proposta da Paolo Lazzari di “Vini da Gigio, dove sarà possibile assaporare il tradizionale piatto durante la settimana della festa della Salute.

1. Far bollire un cosciotto di agnello castrato di circa 2 kg per 10 minuti in acqua con sedano, carota e cipolla; 2. Eliminare l’acqua e rifare l’operazione; 3. Disossare il cosciotto, sfilacciare la carne e rimettere a bolli- re con sedano, carota e ci- polla finché sarà stracotto; 4. A parte bollire in acqua salata le foglie di verza lavate. Scolarle e aggiungerle al brodo della castradina. E regolare di sale; 5. Servire caldo con crostini di pane, una macinata di pepe fresco ed un filo d’olio evo.

 

Articolo tratto da “Il Gazzettino” di domenica 8 novembre 2020

Personaggio curioso, questo San Martino: c’è nebbia, piove, tira vento, il mare è in tempesta (vedi Carducci), eppure lui trova il tempo di salire fino al sottotetto per incontrare, senza successo, la fidanzata (San Martin xe ‘nda in sofita…., la novissa no ghegera…). Scherzi a parte, quella di San Martino – la cui ricorrenza cadeva giusto ieri (11 novembre ndr) – è una figura molto importante nella cultura religiosa e popolare europea, in particolare in Francia ed in Italia. Nato in Pannonia – oggi Ungheria – da famiglia pagana di militari dell’esercito romano, prestò servizio in Gallia nell’esercito romano. Qui si convertì al Cristianesimo, conducendo una vita monastica. Fu spesso in Italia, soprattutto a Milano, ma visse soprattutto oltralpe, dove nel 371 fu eletto vescovo di Tours, raggiungendo un’enorme popolarità, soprattutto tra i contadini, di cui fu coraggioso difensore.

La leggenda della divisione del mantello con il povero infreddolito è troppo nota per dover essere raccontata. La misura della fortuna della sua figura in Francia è data dal numero di chiese, oltre 4.000, e delle località, più di 500, a lui dedicate.

Anche da noi, sono molti i riscontri, anche nella lingua: ad esempio, popolarmente, “far San Martin” significava traslocare, trasferirsi, in quanto, tradizionalmente, l’11 novembre – data in cui San Martino si festeggia, a ricordo del giorno della sua sepoltura a Poitier – coincideva con la scadenza dei contratti agrari stagionali. In quel giorno, le famiglie contadine raccoglievano le loro masserizie per trasferirsi nei nuo- vi poderi. Oppure “A San Martin tuto el mosto deventa vin”, in quanto l’11 novembre sarebbe convenzionalmente la data in cui il mosto si trasforma in vino, da festeggiarsi stappando, appunto, qualche bottiglia di vino nuovo, accompagnato da caldarroste. Anche a Venezia, la festa di San Martino è molto sentita e di lunga tradizione. II suo culto in città è molto antico, tanto che la chiesa omonima fu fondata nel sestiere di Castello, vicino all’Arsenale addirittura nell’VIII secolo, probabilmente da colonie longobarde o famiglie ferraresi. La tradizione vuole, invece, che la chiesa sia stata eretta alla fine del VI secolo per volere delle famiglie Vallaresso e Salonigo. L’attuale edificio risale al ‘500 ad opera di Jacopo Sansovino e custodisce come reliquia la tibia del santo. Accanto alla chiesa, in un bassorilievo del XV secolo, si trova la classica raffigurazione del Santo nell’atto di donare il mantello al povero. È collocata sulla porta dell’Oratorio della Scuola di San Martino dei calafati, le maestranze impiegate nella costruzione delle imbarcazioni in legno del vicino Arsenale. Anche se oggi la consumistica festa di Halloween ha un po’ soppiantato un’usanza che andrebbe, comunque, per quanto possibile, tutelata, l’11 novembre i ragazzini veneziani scendono in gruppi nei campi e nelle calli pestando rumorosamente su pignatte e coperchi, cantando il tradizionale “Viva, viva San Martin” e chiedendo qualche dolcetto ai negozianti, ben propensi ad accontentarli, pur di allontanare lo strepito. Ovviamente, San Martino non si festeggia solo per la strada, ma anche a tavola con il tipico dolce di pasta frolla a forma di San Martino a cavallo, ricoperto di glassa con caramelle e altre decorazioni sul quale si mettono in gioco pasticcerie, panifici e cuochi di casa, ognuno con la propria ricetta e la propria fantasia. E da oggi lo si può trovare anche in saldo.

LA RICETTA

 

Per chi (ormai l’anno prossimo, se si vuol essere rigorosi, ma niente impedisce di farlo quando ne avete voglia) volesse sbizzarrirsi a preparare in casa il proprio San Martino, la ricetta viene proposta dal Ristorante Estro in Crosera San Pantalon a Dorsoduro, condotto dal 2014 da Alberto e Dario Spezzamonte. Base di tutto, l’impasto della cosiddetta “Pastafrolla Milano” che ha come caratteristica l’utilizzo dello zucchero a velo al posto di quello semolato. Con le dosi indicate, si potranno realizzare tre o quattro “San Martini” di medie dimensioni. Con eventuali avanzi di pasta frolla, si potranno fare degli ottimi biscotti.

 

INGREDIENTI

455g burro, 500g zucchero velo, 5 g sale, 

Aromi: buccia di limone e d’arancia e un pizzico di cannella, 

200g uova, 1000g Farina OO.

PROCEDIMENTO

Prima di cominciare, naturalmente, ci si deve munire dello stampo a forma di San Martino. Sabbiare (cioè, ridurre in briciole minute) il burro con la farina gli aromi e il sale fino. Il burro deve essere freddo, appena tolto dal frigorifero. Unire quindi le uova e di seguito lo zucchero a velo. Impastare a mano o in planetaria con il “verme” (ossia con l’attrezzo a spirale), fino ad ottenere un composto omogeneo e sodo. (Anche la “sabbiatura” può essere effettuata a mano e con la planetaria). Avvolgere l’impasto ottenuto nella pellicola e far riposare in frigorifero a 4 gradi per non meno di 3 ore. Stendere la pasta dello spessore desiderato (si consiglia 5 mm) e ritagliare il San Martino con lo stampo. Infornare per 20/25 minuti, a seconda del forno a 150 gradi. Una volta raffreddato, decorare a piacere. Si possono scegliere prodotti di stagione come frutta candita, marroni glassati, mandorle, nocciole, ma vanno benissimo anche caramelle, cioccolatini e confetti.

Il Gazzettino di Venezia 13 novembre 2023

A cura dell’Associazione Ristoranti della Buona Accoglienza di Venezia

Un piccolo quiz: cos’è un “gregallu”? E un “manicaio”, oppure un “manego de cutelo”? Semplice, sono alcune denominazioni regionali – rispettivamente sarda, toscana e ligure – delle nostre popolarissime capelonghe, in Italiano “cannolicchi”. 

Fino ad un paio di decenni fa era facile vederle sulle nostre spiagge, a poca profondità occhieggiare con i loro due sifoni, pronte a fuggire al minimo movimento. Oggi sono pressoché scomparse, vittime dei cambiamenti climatici e, soprattutto della pesca massiva praticata con le cosiddette “turbosoffianti” che hanno distrutto, – e continuano a distruggere – i fondali marini sabbiosi presso le coste. Ad essere precisi, quella che si pescava soprattutto a pochi metri dalla battigia, o con la maschera e le pinne poco più al largo, era la capalonga marina (Ensis minor), la qualità più pregiata, presente, peraltro, anche all’interno della laguna dove conviveva con la Solen vagina, volgarmente “tabachina”. Si tratta di una varietà meno pregiata, ancor oggi abbastanza diffusa, che preferisce i fondali fangosi, di colore più scuro, di odore e sapore meno gradevoli, seppur commestibile, ma molto usata come esca. Quelle che oggi si trovano in pescheria provengono quasi esclusivamente da Manfredonia e dalla costa atlantica della Francia. 

Un tempo le capelonghe erano così fitte lungo le spiagge che si dice che nella Venezia del tardo Medioevo fossero considerate una difesa contro l’erosione del litorale che contribuivano a consolidare (non esistevano i Murazzi). Addirittura, si racconta che la pesca fosse rigidamente controllata e che i “bracconieri” venissero severamente puniti con il taglio delle due dita – pollice e medio – utilizzate per la pesca.

 A prescindere dai metodi industriali, le tecniche di raccolta delle capelonghe sono due. La prima prevede che, individuati sul fondo i due piccoli sifoni, si introduca lateralmente un dito nella sabbia bloccando la cappa e la si afferri poi estraendola delicatamente. Non è semplicissimo, perché la capa longa, è sensibilissima e velocissima a fuggire, scomparendo sul fondo. Pescata così, si chiama appunto, “capa da deo”. È la tecnica più preziosa perché preserva perfettamente il mollusco all’interno delle valve. L’alternativa è l’utilizzo di un lungo ferro sottile con una sorta di piccolo arpione all’estremità con cui, anche dalla barca, si infilza la capalonga estraendola dal fondo. In questo modo, però si rischia di danneggiare il mollusco e di far entrare della sabbia. Ecco perché la “capa da fero” era considerata meno pregiata ed al mercato era venduta a prezzo inferiore.

Fino agli anni ’60 queste tecniche artigianali venivano ancora utilizzate a fini commerciali. Allora i pescatori, terminato il loro lavoro nel tardo pomeriggio, venivano in città per vendere il loro pescato. Era ormai buio – il periodo è quello delle basse maree, tra dicembre e febbraio – e per illuminare il loro cesto (corbàto) pieno di capelonghe, accanto al cartello del prezzo collocavano un moccolo di candela acceso in un bicchiere. Immagini tradizionali oggi ovviamente scomparse, assieme alle capelonghe delle nostre spiagge.

 

Le capelonghe, naturalmente, sono buonissime semplicemente saltate o alla griglia. Tomaso dell’Ostaria Da Rioba in Fondamenta della Misericordia propone, invece, le linguine con capelonghe, ceci e coriandolo.

 

Ingredienti per 4 persone: 360 gr di linguine, 500 gr di capelonghe, 250 gr di ceci secchi, 1 mazzetto di coriandolo, olio Evo, pepe, sale q.b.

 

Ammollare per una notte i ceci, il giorno seguente sciacquarli e cuocerli per 45 minuti in acqua bollente poco salata. Una volta cotti, con una metà andrà fatta una crema, frullando con olio, sale e pepe, mentre l’altra metà sarà tenuta da parte. Saltare poi le capelonghe pulite in una padella con olio caldo e aglio. Nel frattempo tritare finemente il coriandolo, che sarà aggiunto alla fine. Unire i ceci e la crema nella padella insieme alle capelonghe. Una volta amalgamato, scolare le linguine e finire la cottura facendole saltare in padella con il loro sugo e il coriandolo.

 

A cura dell’Associazione Ristoranti della Buona Accoglienza – Venezia